Cose che non vanno in questo blog II. Nuovi problemi

28 ottobre 2010

Cari amici e amiche,

sono passati poco più di sette mesi dalla creazione di questo blog (il 24 marzo), ma siamo anche all’inizio di un nuovo anno accademico, un momento in cui si avverte in maniera spiccata l’esposizione al futuro e dunque si è portati a porre e a porsi la domanda sul senso. È una domanda, lo sappiamo, delicata e in cui spesso si annidano presupposti e ideali immaginari e tuttavia è anche una domanda che non si lascia dissolvere da un’osservazione tanto astratta, soprattutto da parte di chi ha finito o si appresta a finire qualcosa come il suo dottorato o la sua laurea specialistica. Io, comunque, non ne tratterò in generale, ma in rapporto al blog. Con questo non cambio argomento o almeno non vorrei farlo: questo blog voleva proprio essere un luogo dove affrontare insieme almeno uno dei lati di quella preoccupazione per il senso, il lato per cui ci si può chiedere: “e ora che cosa ne faccio di questo sapere filosofico che ho coltivato? Che posto gli do nella mia vita o nel mio lavoro o in entrambi?”. Questo il blog voleva essere nella mia intenzione, forse non nella vostra.

A molte delle persone che stimo ho chiesto dei giudizi sul blog, ho preso come occasione il fatto di aver scritto il post “Servirsi della filosofia” come una sorta di sintesi del mio lavoro qui: ho ricevuto alcune critiche di cui vorrei parlare. Hanno un interesse che travalica il blog e arriva al saperci fare con la filosofia.

Per vari giorni e settimane, mi sono messo davanti questi pezzi di puzzle per cercare di comporre il quadro, ma non sono riuscito ad andare al di là del raggrupparli per colore.

In una cena a casa mia, Diego Giordano ha chiesto a una mia amica, che ha finito il dottorato l’anno scorso e che legge il blog, perché non ha mai scritto e lei ha risposto che trova in questo blog “solo delle parole”. Giorni dopo ho chiesto a questa amica, Alessia, di spiegarmi meglio: ne è nata una discussione emotivamente difficile, ma delle varie cose che mi ha detto ce n’è soprattutto una che ha continuato a tornarmi in mente. Mi ha detto che rileggendo il blog, questa volta con l’intenzione di scrivermi e partecipare, l’impressione iniziale e rimasta per vari mesi, si è almeno in parte sciolta: quelle “parole” le sono apparse riempite di significato, quando le ha lette con l’intenzione di partecipare e di fare. Allora, il problema è qui, mi sono detto: non è chiaro che cosa questo blog chiede di fare, non è chiaro come si aspetta che uno partecipi attivamente.

Qualcuno vorrà ribattere: “ma come? Si tratta di leggere e di rispondere, con commenti o post, se si ha qualcosa da rispondere”. Non è così semplice, ha ragione Alessia. C’è qualcosa di non chiarito e di non pensato.

Pochi giorni dopo la creazione del blog, quando partecipavano in tanti, ancora sorretti dalla forza dell’esperienza delle discussioni in comune a Torino, Luigi Capitanio ha scritto un post dove metteva in guardia dalla filosofia implicita nella forma “blog”. Io gli davo ragione, ma aggiungevo che si trattava di provare, di non dare la partita per persa fin dall’inizio. Di lì a qualche settimana, è aumentata la fila di coloro che mi scrivevano: “guarda, il blog è bello e interessante, ma di partecipare non me la sento, è troppo diverso dal parlare in presenza”. Nonostante tutto, ho sottovalutato la verità di queste osservazioni. Dicevo: “ma certo che non è un dialogo in presenza, però, è una forma i cui limiti e le cui possibilità non abbiamo ancora sperimentati. Inoltre è l’unica via, visto che viviamo lontani gli uni dagli altri”. In questa risposta sottovalutavo quanto peso ha il corpo nella regolazione degli scambi: senza la presenza fisica non si riesce a trovare la misura, non si trovano le maniere di partecipare, non si comprende il punto, la Cosa.

Ne ho scritto a Federica Giardini, che insegna a Roma Tre e con cui avevo parlato dopo una sua conferenza a Verona; nel farlo le ho mandato il link del blog e del post “Servirsi della filosofia”. Tra le altre cose, mi ha scritto: « Dici della misura che dà il corpo rispetto al blog. Per quanto ne so – da due diverse esperienze di altre a me vicine – questa misura può venire o da un gruppo che lavora in presenza e che riporta e sviluppa scambi sul blog, oppure da una scrittura molto quotidiana, molto vivida di esempi, di circostanze entro cui prendono forma quei pensieri», e poi: «Sulla rete. Credo che abbia un valore se inizia e prosegue momenti in presenza. Hai già un gruppo con il quale ragionare su queste questioni?». E infine: « Più in generale. Inviti a riflettere sulle circostanze entro cui avviene il pensiero filosofico. Allora partiamo ciascuno, ciascuna, da sé. Con chi fai filosofia, dove, come, con quali difficoltà e promesse o momenti di gioia? Prendila come una domanda vera».

L’errore alla base di questo blog è dato, dunque, dalla volontà di farne il luogo di discussione sul saperci fare con la filosofia invece che collegarlo ad un luogo in cui tale discussione accada anche in presenza?

Raccontavo le osservazioni di Federica e di Alessia ad un’altra amica, Maddalena, anche lei dottorata da poco e anche lei lettrice silenziosa del blog. Anche per lei l’assenza di viva presenza è un problema: quando però ho ribattuto che lei ed io ci vediamo spesso e che quindi almeno tra noi c’è anche la presenza, mi ha detto una cosa in cui ho intravisto un possibile collegamento tra l’osservazione di Federica e quella di Alessia. Mi ha detto: “sai cos’è? Non c’è un progetto in questo blog, non è offerta una via dove incanalare l’energia e la creatività – e solo se la incanali da qualche parte, quella cresce e aumenta, altrimenti va persa e finisce”. Ho risposto che il progetto c’è eccome e che l’ho esplicitato più volte: confrontarsi e scambiarsi idee ed esempi di usi differenti della filosofia. Devo ammettere, però, che mentre lo dicevo mi accorgevo che aveva ragione lei: quello che citavo è un progetto ancora troppo astratto, non “troppo contemplativo”, ma “troppo poco situato”; la domanda è talmente ampia, da essere ancora quasi indeterminata. È ovvio che uno non sa che cosa fare.

È in questo giro di pensieri che mi è tornata in mente una frase di Muraro che si trova nel post con le sue due osservazioni: «Bisogna buttarsi e rischiare, le forme nasceranno». Si riferisce alle forme attraverso cui praticare la filosofia ora che le forme a cui siamo stati addestrati sono in una crisi di senso tale per cui, come minimo, non possono più essere le uniche adottate. Si riferisce a queste forme e sta rispondendo al problema che io ho esposto come il mio: non ho immaginazione e capacità inventiva. Luisa Muraro risponde: comincia dalle forme che di fatto pratichi e dal raccontare dove e quando ti sembrano girare a vuoto, lì avrai i vincoli di cui hai bisogno per inventare. Lì, aggiungo, potrò proporre un progetto rispetto a cui uno o una possa chiedersi se incanalarvi o no la sua energia: attualmente invece, non c’è un progetto rispetto a cui farsi questa domanda.

È questa la via da battere? Non lo so ancora, anche se la proverò. C’è però una considerazione che mi fa ben sperare. Molti mi dicono che questo blog è difficile: che è molto denso e che richiede molto impegno nella lettura. Ebbene, c’è un nesso tra questa difficoltà e l’assenza di un progetto? Forse sì e se sì, allora la via del puntare su un progetto, su una progettualità positiva, potrebbe essere giusta. Mi ha fatto sospettare che la risposta sia sì, Stefania Ferrando.

In una lettera mi diceva che qualcuno potrebbe riconoscerci in difficoltà per via del nostro «fare questi discorsi difficili, che non sanno ancora stare in piedi da soli e per questo si legittimano con la loro alta qualità e complessità filosofica». Come a dire che non stiamo solo facendo quel che diciamo di fare, ma, attraverso quell’eccesso di difficoltà e densità, stiamo anche rassicurandoci a proposito del senso del nostro atto: “sì, stiamo facendo filosofia”, “stiamo ancora facendo filosofia, infatti discutiamo di metafisica!”. Ha aggiunto: «Che cosa ci manca per fare discorsi che stiano in piedi da soli? Che cosa si impara dal desiderio della Gelmini sul mondo, citato dalla Muraro nel blog? Di che cosa abbiamo paura?».

Allora, per non cedere sul proprio desiderio e fare sì che traini, bisogna tentare di esplicitarlo e dunque di indicare un progetto, proporlo. Questo forse potrà anche consentire di trovare i modi di fare spazio alla presenza: in effetti, non ci si può proporre di incontrarsi per parlare del saperci fare con la filosofia, ma lo si può forse fare per un progetto più determinato.

Se sapremo farlo, ad esempio, se io saprò fare la mia parte (spero già nella discussione che seguirà qui sotto) e se riuscirà, il merito andrà a queste donne con cui ho parlato.

Riccardo Fanciullacci

2 Risposte to “Cose che non vanno in questo blog II. Nuovi problemi”

  1. Enrico Fontana Says:

    Non capisco bene a che cosa pensi quando parli di “progetti”. Se intendi qualcosa di vicino a “soluzioni pratiche”, resto in dubbio perchè a me sembra che la carenza di riflessione nella nostra società sia qualcosa che dovrebbe preoccupare i filosofi più della ricerca di soluzioni pratiche. Forse però non intendi questo.

    La cosa che dici sul corpo, invece, mi trova d’accordo: anch’io ho sempre sottovalutato il ritmo che al pensiero dà il discutere in presenza.
    Ha a che fare anche col tempo: per leggere devi “trovare il tempo”, per proseguire una discussione o un dialogo in cui sei preso, se il tuo interlocutore è anche un amico, invece, il tempo ti si dà. Non so come dire: lo ricevi il tempo, non devi trovarlo. Questo non lo si può capire se si parte dall’orologio e dal guardare le due situazioni dall’esterno, ma lo si capisce passando per la prima persona. (è uno di quei momenti dove bisogna essere un po’ idealisti e un po’ meno realisti per mettere in ordine il problema – come dicevi qualche giorno fa. Voglio dire che in un certo senso, il tempo c’è se lo percepisci e c’è come lo percepisci).
    Proprio questa cosa ti fa vedere in che senso ti ho detto più volte che i post devono essere un po’ più brevi: perchè anche se uno ti stima o ti vuol bene, comunque per leggerti deve “trovare il tempo” – mentre per ascoltarti è diverso, c’è la presenza che dona tempo.
    Guarda che non ti sto criticando, sto dicendo che fa parte di quella misura che cerchi il riuscire a dire la cosa che vuoi dire senza perderti troppo. Tu, di solito, non ti perdi dietro a cazzate, però, ti perdi a voler precisare tutto, a ritessere il senso, a mostrare che ciò che dici è collegato a quello che sei mesi fa diceva Luigi Capitanio o qualcun altro… Tutto questo, non è così importante: ho capito lo spirito con cui lo fai, ma funzionerebbe solo se fossimo a passeggio o in pizzeria. In presenza, insomma.
    Lo so che a te piace far vedere che tutto ritorna, che tutto si tiene e quella cosa delle armonie nascoste che dici sempre, però, non funziona, non funziona su internet, almeno.
    Un giorno mi hai detto che tu cerchi di prendere per mano il lettore. Ti riconosco la bravura di saper prendere per mano i tuoi ascoltatori, ma con i lettori hai un problema di misura. E questo si riflette sul blog: dici che molti si spaventano. è ovvio, perchè tu proponi un viaggio guidato, ma talvolta uno ha il tempo solo per fare due passi.
    Se riesco, metto nelle “Frasi” quel passo di Cartesio in cui dice che bisogna lasciare delle cose da pensare al lettore, altrimenti quello si annoia e non risponde.
    Mi viene in mente ora che forse cerchi il “progetto” per costringerti a lasciare qualcosa da fare.

    (Non ti arrabbiare, ma questo è un po’ un voler dire il vero sul vero…)

  2. Riccardo Fanciullacci Says:

    Caro Enrico,
    non ti ho risposto subito perchè sia Lele, sia Luigi Clemente mi avevano detto che stavano per scrivere, ma ora vorrei dire almeno due cose, oltre che ringraziarti.

    Quanto ai progetti. A livello di ipotesi ce n’è più di uno, ma quello che ha già una consistenza te lo anticipo: con alcuni altri/e e, presto, con chiunque voglia aggiungersi, staimo preparando una specie di discussione sull’ultimo libro di Esposito, “Pensiero vivente”, perchè in esso si tenta una riflesione generale sulla filosofia italiana. Gli interventi saranno ospitati sul blog, non prima di Dicembre, però e probabilmente sotto Natale.
    Io vorrei anche progetti meno legati a forme già collaudate (e tale è la discussione di un libro di filosofia), ma questo mi pare comunque una buona idea, per le ragioni che illustreremo tra breve, annunciandolo “ufficialmente”.

    Quanto al ritmo nella scrittura su internet, hai totalmente ragione. Il problema che tocchi a partire da una riflessione sul mio caso, però, ha una portata più generale. Sarebbe assolutamente da fare una ricerca sulle possibilità che si aprono, ma anche quelle che si chiudono nella scrittura sul web. Messa così è un’idea generica, ma quello a cui penso dovrebbe affrontare questi fatti:
    – persone che leggono decine e decine di pagine al giorno su libri o riviste, anche molto tecniche, trovano troppo lungo un post di tre pagine. Non è pigrizia, è una reazione che si impone. Ma perchè? Come si spiega?
    – non so a te o agli altri, ma a me non riesce di leggere e-book: ne compromo, ma poi mi stampo i vari capitoli che mi interessano per leggerli. Giusto le enciclopedie riesco a leggerle sullo schermo, ma già gli articoli lunghi della Stanford, se posso li stampo.

    Un amico mi ha parlato di una tesi di dottorato, fatta da una studiosa francese di pedagogia, che ha un po’ indagato queste cose, mostrando che è tutt’altro che legato ad una nostalgia passatista lo scetticismo che molti provano verso l’idea di sostituire i libri con gli e-book, da leggere su supporti leggeri tipo l’i-pad. Di questo ne sono consapevoli i ricercatori Apple ecc., basta pensare al progetto di quel supporto in cui giri una sorta di pagina per far cambiare la pagina sullo schermo: è un tentativo di recuperare un gesto che forse è legato all’apprendere in modo più stretto di quanto non creda una concezione intellettualistica dell’uomo.
    Sono tutte questioni di primaria importanza per chi riflette sul posto del sapere nella nostra società.
    Cose come google o wikipedia, hanno cambiato o stanno cambiando la posizione del soggetto in rapporto al sapere. è una modificazione di struttura, non qualcosa su cui esercitare una sorta di nostalgia tradizionalista: chiede di essere pensata a un ben altro livello.
    E ha a che fare con la pratica dei blog, pratica che è come un habitus con cui anche noi qui dobbiamo fare i conti, come mi dici tu. E hai ragione, la mia idea era: “a livello teorico bisogna indagare la trasformazione, ma nella pratica, io semplicemente vìolo le abitudini dei blog”.
    Sarà sbagliata, ma non è un’idea peregrina: uno dei testi più acuti sulla TV lo ha scritto Bourdieu (Sur la television) e nasce da una lunga conferenza che lui ha fatto per la televisione francese: il programma violava tutte le tacite abitudini: la camera ferma su di lui, che parlava, per due ore, alla scrivania. Tutti noi abbiamo sentito lezioni così, ma mi hanno detto che l’effetto in TV è esplosivo: ti sembra di essere su un altro pianeta. E NON CE LA FAI A SEGUIRLO. Questo prova che la configurazione abituale dell’uso di un mezzo è davvero troppo forte? Quello che tu scrivi a me sembra confermare che sì.
    Questi limiti di fatto mi interessano molto.
    Anche per forzarli, ma non in modo da perdere sicuramente la sfida.

    Il tempo c’è a seconda di come lo percepisci… è una bella idea. Ad un certo punto, però, la notte viene…

    Ciao


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